Vezio De Lucia
Nella città dolente. Mezzo secolo di scandali urbanistici.
Dalla sconfitta di Fiorentino Sullo alle cricche di Silvio Berlusconi.
Castelvecchi edizioni, Roma 2013, 256 p., 19€.
Il 13 aprile del 1963 è una data fondamentale nella storia del nostro Paese. Quel giorno «Il Popolo», quotidiano ufficiale della Dc, scrisse che nello schema di nuova legge urbanistica presentato dal ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo non era «in alcun modo impegnata la responsabilità della Democrazia cristiana». Finì così, ma lo capimmo molti anni dopo, la possibilità di sottrarre le nostre città alla prepotenza della speculazione fondiaria che aveva avuto il via libera alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Fiorentino Sullo era il più autorevole e brillante rappresentante della Sinistra democristiana e la sua proposta di legge mirava ad abbattere con risolutezza il costo degli alloggi attraverso l’esproprio delle aree edificabili e la loro cessione a prezzi molto inferiori a quelli del libero mercato. Ma gli interessi minacciati – sostenuti dalla Destra in tutte le sue sfumature, dai fascisti ai liberali, e da gran parte della stampa – reagirono duramente diffamando il ministro e accusandolo di voler togliere la casa agli italiani: una pagina vergognosa della nostra vita politica. La Democrazia cristiana, per evitare di trovarsi in difficoltà alle imminenti elezioni politiche del 28 aprile, si schierò con la Destra. La proposta di riforma urbanistica finì su un binario morto e Sullo fu a mano a mano emarginato dalla vita politica. A dare carattere definitivo alla sconfitta contribuì il tentativo di colpo di Stato dell’estate del 1964 (il cosiddetto «Piano Solo») ordito dagli ambienti politici e padronali atterriti dalla proposta di riforma urbanistica.
Nacque allora la «sindrome Sullo», una specie di patologia infettiva che colpisce chi assume posizioni rigorose e razionali in materia urbanistica costringendo i detentori del potere – quelli autentici e in genere incogniti – ad allontanarlo dalla carriera politica. Gli esempi non mancano, penso ad Achille Occhetto, fondatore del Pds poi defenestrato, che nel 1989 tentò di impedire una manovra sulle aree di proprietà Fiat e Fondiaria nella piana di Firenze. Oppure a Renato Soru che nel 2009 non fu confermato nella carica di presidente della Regione Sardegna non essendo condivisa la sua politica di tutela del paesaggio e del patrimonio d’arte e di storia. E a tanti altri, conosciuti e meno conosciuti.
Nonostante la precipitosa caduta di Sullo, in molti continuammo a credere nella riforma. Ci dicemmo che se non era stato possibile assumere subito costumi urbanistici confrontabili con quelli nordeuropei, avremmo potuto accontentarci di un percorso più lento e graduale. Se è vero infatti che con il Piano Solo muore il Centrosinistra riformatore (Guido Crainz), è anche vero che, per almeno tre lustri, si sviluppò quel «processo di riforma» che assicurò buone leggi per l’edilizia pubblica, il recupero del patrimonio storico, la dotazione di attrezzature e servizi, e permise non poche esperienze di buongoverno (Firenze, Bologna e dintorni, i Comuni della Maremma livornese e altri luoghi, anche amministrati dalla Dc). Risultati possibili grazie a sindaci coraggiosi e al movimento sindacale e popolare che, in particolare alla fine degli anni Sessanta, si mobilitò per le riforme, mentre era stato assente al tempo di Sullo, che fu anzi avversato, come vedremo, da un vasto schieramento comprendente ogni ceto sociale.
La crisi, quella davvero irriducibile, esplose più tardi, all’inizio degli anni Ottanta, una crisi che divide la nostra storia recente in due mondi distinti e separati: finisce l’età dell’oro del compromesso socialdemocratico (Eric Hobsbawm) e comincia il periodo della globalizzazione della finanza e dei capitali che cova in sé i germi del disastro esploso nel 2008. Il trionfante neoliberismo è dilagato in tutto il mondo e in Italia ha contaminato anche la cultura e la prassi di gran parte della Sinistra generando persistenti manifestazioni di trasformismo e di disincanto.
L’urbanistica, parente stretta della politica, ha subìto la medesima sorte. Nuove leggi e nuovi istituti hanno smantellato i risultati ottenuti in precedenza, il governo pubblico del territorio è stato progressivamente azzerato. Alla pianificazione è stata sostituita la negoziazione. I profani della materia restano increduli se si racconta che nel 1977 la legge Bucalossi aveva introdotto l’istituto della concessione edilizia, cioè il principio che la trasformazione del territorio appartiene al potere pubblico, il quale, a determinate condizioni e conformemente alle previsioni degli strumenti urbanistici, può farne oggetto di concessione onerosa a soggetti privati. Esattamente il contrario del furore proprietario e individualistico che anima il pensiero neoliberista e ancora di più il berlusconismo dei «padroni in casa propria»: la proprietà avanti a tutto, la proprietà purchessia, quella delle grandi immobiliari e quella miserabile degli abusivi. In diciotto anni sono state approvate tre leggi per il condono edilizio: nel 1985, governo Craxi; nel 1994, primo governo Berlusconi; nel 2003, secondo governo Berlusconi. Fino al piano casa del 2009, che è una sorta di condono preventivo e generalizzato.
Silvio Berlusconi e il berlusconismo annidato in ogni dove hanno tenacemente operato per vilipendere la disciplina urbanistica. Nel 2008, inaugurando un congresso di architetti, il ministro Sandro Bondi, fedele interprete del presidente del Consiglio, dichiarò che «le città d’arte furono costruite senza leggi urbanistiche, leggi che una volta introdotte hanno saputo produrre solo bruttezza e squallore nelle nostre città». Ma la svalutazione dell’urbanistica è generalizzata. A quarant’anni dall’istituzione delle Regioni dobbiamo riconoscere che le speranze di allora sono state tradite e all’iniziale competizione per il buongoverno si è sostituita la tendenza all’omologazione verso il basso. La pianificazione del territorio è un argomento inesistente nei programmi politici. I due sindaci di Sinistra la cui elezione aveva rappresentato nel 2011 una bella novità – Giuliano Pisapia a Milano e Luigi de Magistris a Napoli – proprio nell’amministrazione dell’urbanistica stanno assumendo atteggiamenti che poco hanno a vedere con gli impegni dichiarati in campagna elettorale. Né si ha notizia di nuove e significative esperienze.
Alla fine è successo che proprio chi era stato in prima linea per la riforma urbanistica – quella radicale e quella graduale – si è sentito obbligato a difendere con le unghie e con i denti la legge del 1942 sapendo che dalla politica e dalle istituzioni degli ultimi lustri sarebbero venuti solo peggioramenti.
Questo libro racconta storie e cronache degli ultimi sessant’anni in forma cronologica o quasi (più o meno un decennio per capitolo). Storia e cronache che riguardano in prevalenza energumeni del cemento armato, paesaggi sventrati, alluvioni, terremoti, tanta incompetenza, non trascurando tuttavia fatti e persone da classificare in controtendenza. Non è un’esposizione completa perché illustra in particolare vicende e circostanze che ho conosciuto meglio, e talvolta vissuto. Ne consegue un eccesso di passioni e di esperienze soggettive dalle quali uno storico dovrebbe rifuggire. Ma sono troppo di parte per essere uno storico. Il carattere eterogeneo del libro è confermato dall’ultimo paragrafo (L’invalicabile linea rossa) che tratta di urbanistica operativa proponendo un provvedimento di spietata radicalità per bloccare le dinamiche di dissipazione del suolo che hanno assunto la dimensione del cataclisma e come tali vanno affrontate.
Alcuni degli argomenti trattati li ho già esposti altrove. Con una punta di civetteria Antonio Cederna si vantava di scrivere sempre lo stesso articolo: io sono stato allievo di Cederna – oserei dire l’allievo prediletto – e da lui ho imparato non solo che non ci si deve vergognare di ripetere (ma non è mai una ripetizione pedissequa) fatti e concetti in cui crediamo, ma che anzi abbiamo il dovere di farlo. È necessario tornare su certe vicende soprattutto per comprendere che la crisi profonda in cui siamo immersi è stata generata dalle scelte mancate o sbagliate del nostro passato.
Questo libro deve molto a eddyburg.it, il sito fondato e diretto da Edoardo Salzano che ad esso dedica il meglio delle sue energie. Tratta di urbanistica, società, politica e argomenti che rendono bella, interessante e piacevole la vita. È un riferimento obbligatorio per chi si occupa di città e territorio, provvisto com’è di un archivio di ventimila documenti ma soprattutto perché ricco di commenti e interpretazioni critiche relative alla politica (non solo urbanistica) di Destra e di Sinistra.
L’invalicabile linea rossa
L’ultimo paragrafo del libro non è di storia, né di riflessioni sulla storia ma cerca di mettere a profitto la storia e le riflessioni fin qui esposte per rispondere alla domanda: che si può fare per salvare il salvabile? Nelle pagine precedenti abbiamo descritto le forme abominevoli che ha assunto lo sviluppo urbanistico nel nostro Paese. È un problema non solo di quantità, anche di forma. Nel senso che le quantità realizzate hanno risposto, seppure con grandi sprechi, a bisogni effettivi di alloggi, di infrastrutture e spazi per la produzione e i servizi. Ma è la disposizione dei manufatti prodotti che ha assunto carattere criminale. Mi riferisco in particolare alle più recenti espansioni urbane, quelle degli ultimi trent’anni, realizzate con densità irrisorie o peggio ancora fatte di immobili abitativi e produttivi disseminati in campagna. Se le stesse cose fossero state costruite con qualche criterio – per esempio obbligando a densità minime ragionevoli – si sarebbe risparmiata almeno la metà delle migliaia di ettari ogni anno sottratti alla campagna o alla natura e trasformati nell’infamia che ci avvolge. Nell’autunno del 2012, Mario Catania, ministro dell’Agricoltura del governo Monti, ha proposto un disegno di legge per il contenimento del consumo di suolo, faticosamente contrattato con le Regioni, basato su procedimenti a cascata, con esiti imprevedibili e tempi lunghissimi. In sostanza lo Stato propone, ma alla fine a decidere sono Regioni e Comuni. Che è come chiedere al gatto di Pinocchio di tenere a bada la volpe, o viceversa. Intendiamoci, non tutte le Regioni e non tutti i Comuni sono uguali. So bene che in certi posti gli spazi aperti sono in qualche misura tutelati, soprattutto nel Centro-Nord. Viceversa, nel Mezzogiorno, dal Lazio in giù – Lazio e Roma da questo punto di vista sono profondo Sud – lo spazio aperto è considerato sempre e comunque edificabile, farsi la casa in campagna un diritto inalienabile, e chi ha provato a metterlo in discussione è stato colpito dalla sindrome di Sullo e rapidamente emarginato dalla vita politica.
Non è perciò convincente la proposta Catania, troppo propensa al pluralismo istituzionale per perseguire efficacemente l’obiettivo, che dovrebb’essere prioritario, di imporre le misure più severe laddove maggiore è la sregolatezza: ve le immaginate Campania e Lazio prime della classe che bloccano le espansioni e reprimono l’abusivismo?
Servono soluzioni radicalmente diverse. E urgenti. Continuare con l’attuale ritmo di dissipazione del territorio, anche per pochi anni, in attesa che le Regioni si convertano al buongoverno, significherebbe toccare il fondo, l’annientamento fisico dell’Italia, un disastro non confrontabile con crisi come quelle economiche e finanziarie, più o meno lunghe, più o meno gravi, più o meno dolorose, ma dalle quali infine si viene fuori. Il saccheggio del territorio è invece irreversibile.
Allora che fare? Per ora un sogno a occhi aperti: un governo con persone sensibili, unitariamente impegnato in un’azione culturale e politica di convincimento dell’opinione pubblica, che propone un provvedimento statale senza misericordia – in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione – che azzera tutte le previsioni di sviluppo edilizio nello spazio aperto e obbliga a ridisegnare gli strumenti urbanistici indirizzandoli alla riqualificazione degli spazi degradati, dismessi o sottoutilizzati attraverso interventi di riconversione, ristrutturazione, riorganizzazione, rinnovamento, restauro, risanamento, recupero (ovvero di riedificazione, ripristino, riparazione, risistemazione, riutilizzo, riordino, rifacimento: la disponibilità di tanti sinonimi aiuta a cogliere la molteplicità delle circostanze e delle operazioni cui si può mettere mano). Non si possono escludere situazioni eccezionali, irrisolvibili senza occupare lo spazio aperto (come impianti produttivi connessi a particolari caratteri dei suoli). In queste circostanze si deve fare ricorso a norme altrettanto eccezionali, per esempio provvedimenti legislativi regionali ad hoc.
Si aprirebbe così una nuova stagione, diventerebbe fondamentale un nuovo strumento urbanistico formato semplicemente da una mappa con un’insormontabile «linea rossa» che segna il confine fra lo spazio edificato e quello rurale e aperto. Una linea che rappresenta nuove e invalicabili mura urbane. All’interno delle quali convivono quasi ovunque le due principali componenti della città contemporanea: il centro storico e l’espansione moderna. Per centro storico intendendo l’insieme del patrimonio insediativo che si è stratificato nei secoli, da quelli più remoti fino alla metà circa del secolo passato (intorno alla fine della Seconda Guerra Mondiale). È la porzione più piccola e preziosa dello spazio urbano – ormai intorno al cinque per cento della superficie urbanizzata totale – e perciò da tutelare rigorosamente.
L’espansione moderna comprende invece il resto della città costruita negli ultimi settant’anni. In essa c’è di tutto. Pensando a Roma: gli intensivi degli anni Cinquanta e Sessanta, l’Ina Casa, i quartieri Peep e quelli abusivi, impianti piccoli e grandi per la produzione di beni e servizi, grande e piccola distribuzione commerciale, parchi e giardini, attrezzature sportive, ville e villette, e lo sterminato sprawl legale e illegale degli ultimi anni. Un territorio che ha continuato impunemente a espandersi, e ormai misura intorno al 95 per cento dello spazio urbanizzato, determinando ovunque un aggravamento dei costi di gestione del sistema insediativo e un grave peggioramento delle condizioni di vita.
Un’espansione siffatta non è più tollerabile, dev’essere bloccata.
Attenzione, quello che sto proponendo è un percorso molto meno terribile di ciò che sembra e non mancano gli esempi di recenti strumenti urbanistici a zero consumo del suolo (il piano regolatore di Napoli e quello di Cassinetta di Lugagnano, il piano territoriale della Provincia di Torino, quello della Provincia di Caserta). Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che la strategia della invalicabile «linea rossa» non è un’utopia e stop al consumo del suolo non significa sviluppo zero. Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che i bisogni nuovi e pregressi da soddisfare sono ancora enormi – anche se diversi da luogo a luogo – e sarebbe una follia pensare di limitarli. Ma gli spazi necessari possono essere agevolmente reperiti nell’ambito delle aree già compromesse, sottoutilizzate o dismesse. Mi limito a riprendere pochi dati dal piano territoriale della Provincia di Caserta approvato nel luglio 2012. Nei 104 comuni di quella provincia mancano decine di migliaia di alloggi e un numero sconfinato di attrezzature e di luoghi per la produzione di beni e servizi. Lo spazio necessario per tutto ciò ammonta a circa tremila ettari. Ma è stato accuratamente calcolato che il territorio malamente urbanizzato e sprecato per edificazione legale e illegale con densità irrisorie – intorno ai dieci abitanti per ettaro – si estende per oltre tredicimila ettari. All’interno dei quali vanno quindi reperiti i tremila ettari indispensabili per tutte le cose che mancano.
Non è un’impresa impossibile né velleitaria. Sapendo, tra l’altro, che la strategia proposta è l’unica capace di dare risposte sostenibili non solo dal punto di vista ambientale ma anche dal punto di vista economico e finanziario. Come prendere due piccioni con una fava: i nuovi interventi localizzati all’interno dell’attuale sistema insediativo servono a soddisfare bisogni accertati, al tempo stesso agiranno come focolai di riqualificazione.
Concludo tornando all’inizio. Nel 1963, la defenestrazione di Fiorentino Sullo scatenò un assalto al territorio mai visto prima. In cinquant’anni sono stati sfigurati cinquemila anni di civiltà insediativa. Il Bel Paese non c’è più, ne restano sparsi brandelli. Lo scempio è avvenuto con la connivenza della stragrande maggioranza degli italiani: accanto agli stati maggiori della speculazione hanno operato le fanterie dei piccoli e piccolissimi proprietari di case e villini, capannoni e fabbrichette. I detentori «del monopolio di accumulazione del plusvalore fondiario di speculazione» hanno saputo «mobilitare psicologicamente milioni di cittadini insinuando il sospetto che il pericolo riguarda la vita di ogni giorno del cittadino medio»: sono parole di Fiorentino Sullo riferite alla sua tragica vicenda, ma valgono anche per la stagione di Silvio Berlusconi.
Neppure la terribile crisi economica degli ultimi anni – che proprio nelle città si è manifestata con rovinosa evidenza – ha frenato i disegni predatori, come sa chi segue le cronache di grandi e piccole città italiane. Ma al tempo stesso l’insofferenza e la protesta per la condizione urbana hanno raggiunto una diffusione mai vista prima. Come se le crescenti difficoltà nella vita di ogni giorno avessero finalmente aperto gli occhi a milioni di cittadini inducendoli a vedere per la prima volta – accanto ai disservizi, agli sprechi, alle inefficienze – anche la degradazione dello scenario fisico che ci circonda, a restarne disgustati e a reagire.
Se non ci sono strumenti e risorse per porre rimedio a decenni di sviluppo urbanistico insensato, nulla impedisce intanto di dire basta. Approvando subito una disposizione per fermare lo sperpero del territorio, una disposizione che assuma oggi la stessa importanza che cinquant’anni fa doveva avere la riforma di Fiorentino Sullo. Ma stavolta non dovremmo mancare l’obiettivo, e il consenso è troppo vasto perché qualcuno pensi a un colpo di Stato.