Riportiamo l’articolo di Salvatore Settis sul Sole 24 Ore di domenica 24 febbraio.
Il divorzio tra tutela dell’ambiente e politiche urbanistiche ha provocato evidenti danni in Italia. Ma come si misura con esattezza il «consumo di territorio»?
I dati da considerare sono tanti, dal censimento degli immobili suscettibili di riuso, al rapporto popolazione-edifici, alla riduzione delle aree agricole.
Se tutto è probabile e nulla è certo, l’universo dei dati è una nuvola in cui ognuno vede la forma che più gli piace. Per gestire il suolo d’Italia occorrono non approssimazioni ma dati certi, che l’Istat può offrire con massima trasparenza a chi governa, ma anche ai cittadini che vogliano «vigilare, giudicare, influenzare e censurare i propri legislatori» (Urbinati): questa è infatti la regola della adversary democracy, che senza soppiantare la rappresentanza politica ne è il necessario controcanto.
I dati sul consumo di suolo sono discontinui, disomogenei nello spazio e nel tempo, lacunosi e contraddittori. Eppure sarebbe essenziale averne chiara nozione, in un Paese in cui si perpetua il peccato d’origine della legislazione di epoca fascista: il mancato raccordo fra tutela dei paesaggi (legge Bottai, 1939), assegnata alle Soprintendenze, e pianificazione urbanistica, controllata dai Lavori pubblici nella legge del 1942.
Entrambe le leggi contenevano garanzie contro l’eccessivo consumo dei suoli: la legge urbanistica intendeva «garantire una permanente supremazia dello Stato sull’interesse privato» (De Lucia), «funzionalizzando la proprietà a fini di interesse collettivo» (Lanzinger). Si ritenne allora che il nodo della speculazione fondiaria nelle aree urbane si potesse affrontare normando separatamente tutela dei paesaggi e crescita delle città. Ma si trascurava così la delicatissima sutura fra città e campagna, quella mutua integrazione per cui Goethe poté dire che in Italia le architetture sono «una seconda natura, indirizzata a fini civili». Questa “zona di trapasso”, che fu il punto di forza del paesaggio italiano, è diventata la “zona grigia” in cui sorgono le tristi periferie che ci assediano.
La Costituzione, assegnando allo Stato la tutela del paesaggio (articolo 9) e a Regioni e Comuni le competenze urbanistiche (articolo 117) ha ulteriormente moltiplicato le competenze.
La legge urbanistica non fu applicata né durante la guerra né dopo, quando la ricostruzione indusse ad accantonarla sotto il segno dell’emergenza.
La ricostruzione postbellica innescò processi di consenso politico e di stabilizzazione sociale legata alla distribuzione degli alloggi, ma nulla fu fatto per indirizzare all’interesse generale l’uso delle aree fabbricabili.
Si radicarono allora due pregiudizi coi quali dobbiamo ancora fare i conti, quasi in un lunghissimo dopoguerra: l’idea che l’edilizia sia fattore trainante nell’economia del Paese, anche a scapito dei suoli agricoli; e la concezione della proprietà immobiliare come bene-rifugio, privilegiando una statica economia della rendita al dinamismo degli investimenti produttivi.
Sul divorzio fra tutela del paesaggio e urbanistica si sono innestati altri fattori di disgregazione, in una sedimentazione normativa di corto orizzonte che intreccia le competenze mettendole in competizione fra loro.
Si è giunti così al disordinato accavallarsi delle nozioni giuridiche non solo di “paesaggio” (di competenza statale) e di “territorio” (di competenza regionale e comunale), ma anche di ambiente (con un proprio Ministero) e di suoli agricoli (con relativo Ministero). È dunque necessario ricomporre in uno questi aspetti, avendo di mira il principio costituzionale dell’utilità sociale e correlando alcune serie di dati: consumo di suolo; rapporto fra nuove edificazioni e fabbricati abbandonati, degradati o invenduti; destinazione edilizia di suoli agricoli e deindustrializzati; rischio sismico e idrogeologico; infine, il nesso fra nuova edificazione abitativa e variazioni demografiche.
Sul consumo di suolo si accavallano nei media dati sempre preoccupanti, ma spesso incoerenti fra loro, e talora confusi con la riduzione della Sau (superficie agricola utilizzata). Si ricorre a varie forme descrittive (per esempio: «ogni giorno si cementificano 161 ettari», oppure «l’Italia perde suolo alla velocità di 8 mq al secondo»), difficilmente confrontabili tra loro anche perché emergono da basi di dati create per scopi non omogenei (pianificazione territoriale, controlli delle coltivazioni, valutazione ambientale, rischio idrogeologico…).
Si parla solo in termini di quantità assolute, e non di qualità dell’occupazione dei suoli. La sovrabbondanza dell’informazione non favorisce la conoscenza, la ostacola; la grande muraglia dei dati è una diga insormontabile per chi voglia tentare di capire.
Sarebbe invece interessante misurare la necessità di nuove edificazioni in relazione alle esigenze abitative, tenendo conto di fattori spesso trascurati: l’incidenza dei fabbricati abbandonati o degradati suscettibili di riuso e la quantificazione delle unità abitative di recente costruzione che sono rimaste invendute o sfitte.
Se il dato spesso ripetuto (due milioni di appartamenti invenduti) risponde al vero, quali conseguenze ne trarremo? Come giudicare l’abbandono dei suoli agricoli e la loro riconversione a uso edilizio, che condanna all’infertilità vaste aree tra le più fertili del mondo (pianura padana, Campania)?
Quel che vorremmo sapere è se e quanto, al di là delle convenienze del singolo, la comunità dei cittadini nel suo insieme perde o guadagna da tali variazioni d’uso. Qualcosa di simile si può dire delle aree de-industrializzate riconvertite a uso edilizio dopo aver delocalizzando all’estero la produzione: ma quale è la convenienza della comunità dei cittadini nel suo insieme? E come si misura?
Infine, le attività edilizie vanno poste in diretta correlazione con la curva demografica. A un minimo incremento demografico corrisponde in Italia un enorme consumo di suolo, con una divaricazione preoccupante, tanto più che calano di numero i giovani in età adeguata alla formazione di nuove famiglie mentre aumentano gli anziani, con conseguente diminuzione delle esigenze abitative.
Intanto, la revisione spesso radicale della pianificazione territoriale a livello comunale vien fatta sulla base di incontrollate previsioni di crescita demografica, trasformando in suolo edificabile enormi estensioni di suolo agricolo (per esempio, è sulla base di un improbabile incremento demografico che nel 2011 a Treviso si è raddoppiato il territorio edificabile, portandolo a 338.000 metri quadrati).
È dunque necessario non solo raccogliere e verificare questi dati, ma anche metterli in correlazione esplicita fra loro, facendone strumento di conoscenza e di governo. Per citare un altro esempio: secondo il rapporto Ance-Cresme (ottobre 2012), il 6,6% della superficie italiana è collocato in frana, il 10% è a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico; i danni si calcolano in 3,5 miliardi l’anno, e intanto gli investimenti per la manutenzione del territorio calano di anno in anno. Messa in sicurezza del territorio, recupero dell’abbandonato, controllo della nuova edificazione sulla base di parametri certi, a cominciare dalle proiezioni di crescita (o non-crescita) demografica e dai dati sull’invenduto: questi ed altri indirizzi di una nuova politica del territorio dovrebbero avvalersi dell’esperienza e della competenza Istat per costruire un nuovo modello che meriti una parola oggi molto usata ma troppo spesso a sproposito: sviluppo.