Una sintesi dei lavori del Convegno nazionale della Rete

TEMI E PROPOSTE EMERSI NEL CONVEGNO “DALLA PARTE DEL TERRITORIO”

Firenze 24 marzo 2012

Il convegno del 24 marzo 2012 organizzato dalla Rete dei Comitati per la difesa del territorio e intitolato significativamente “Dalla parte del territorio”, è stato dedicato prevalentemente alla discussione di proposte che, a partire dalle vertenze in atto, indicassero strade alternative rispetto al modello corrente di appropriazione privatistica delle risorse territoriali.

E’ ovvio che tutto il dibattito e le proposte debbano essere inquadrate nella attuale crisi strutturale prodotta a livello mondiale dal capitalismo finanziario, con l’aggravante italiana di uno sviluppo, particolarmente asfittico – anche in un’ottica capitalistica – per il peso sull’economia di rendite parassitarie, in primis quella della “casta”. Argomenti questi ampiamente dibattuti e su cui non occorre tornare, ma che devono essere tenuti presenti per contestualizzare le proposte in un quadro politico più ampio e con una serie di iniziative dal basso che condividono la critica di un modello che produce contemporaneamente insostenibilità sociale, economica e ambientale. Non si può non accennare in quest’ottica a una caratteristica precipua dell’economia post-fordista (v. intervento di Mauro Chessa) che «slega la produzione dal contesto nella quale questa si realizza; il passaggio al post-fordismo ha segnato il definitivo abbandono del “patto sociale” che legava lo sfruttamento del territorio alla comunità locale. Segnatamente in Toscana, si hanno eclatanti manifestazioni di come questa logica sia stata trasposta nella gestione del territorio».

A questo quadro generale si aggiunge la tendenza, più volta denunciata nei documenti della Rete, che ha visto nell’ultimo decennio molti imprenditori toscani operanti in settori soggetti alla concorrenza globale – come tessile e moda – riconvertire le loro attività dalla manifatturiera all’edilizia residenziale e turistica. Tuttavia, poiché la domanda di abitazioni negli ultimi venti anni è stata molto più legata a opzioni di investimento che al bisogno della casa, anche questa “riconversione” non ha prospettive se non per alcuni settori di eccellenza (si veda ad esempio porti turistici di alto livello, strutture alberghiere di lusso come a Rimigliano, ecc.). Lo “sviluppo” (presunto tale) dipende, quindi, sempre più dalle grandi opere concesse in project financing, ma in realtà pagate dallo stato, di cui il caso emblematico, ma non certo unico, e l’alta velocità (si vedano a questo proposito gli interventi di Maria Rosa Vittadini e di Ornella De Zordo).

 

In questo quadro il consumo di suolo nell’ultimo decennio è ovviamente diminuito rispetto agli anni del boom economico e delle grandi migrazioni interne, ma, secondo dati più aggiornati e precisi, molto meno di quanto dall’assessore Riccardo Conti conclamava nel 2008 (titoli su Repubblica: Suolo e cemento: è in Toscana la terra promessa, oppure Qui si costruisce meno che nel resto d’Italia. E meglio). Secondo i nuovi dati, negli anni che vanno dal 1996 al 2010 in Toscana si è verificato un incremento delle superfici urbanizzate pari al 18%, minore di quello registrato nei decenni precedenti, ma ben lontano da quel 4% sbandierato a suo tempo da Conti. Si è trattato, oltretutto, di consumo del suolo più pregiato da un punto di vista qualitativo: i comitati che si oppongono al consumo di territorio e di paesaggio, ovviamente partendo da situazioni locali, non soffrono perciò di sindrome nimby, ma piuttosto fanno parte di un movimento “niaby” (not in any backyard). E allora, sostiene Greppi: «viviamo forse in quello che in inglese suona come un “cortile” (backyard)? Stare dalla parte del territorio significa difendere un interesse privato? Sembra piuttosto che sia l’interesse collettivo ad essere minacciato da progetti che rappresentano solo interessi privati per giunta estranei al territorio».

 

Centralità quindi di territorio come soggetto dotato di profondità storica, nella cui individualità stanno inscritte le regole delle possibili trasformazioni e come patrimonio da tutelare non solo come risorsa collettiva, ma per il suo valore culturale. Salvatore Settis ha ricordato il ruolo della tutela del paesaggio nella Costituzione, nella formulazione dell’art.9: un paesaggio che è costituito da beni materiali (peculiarità dell’ambiente, dei bacini idrografici, dei suoli, dei boschi, dei paesaggi rurali, dei sistemi urbani e infrastrutturali); e immateriali: delle culture, dei saperi produttivi scientifici, artistici, degli stili di vita. Un progetto “grandioso e irrealizzato”, e ancora da usare “come un’arma” contro coloro che accettano la realtà così com’è.La Costituzionetutta, e non solo l’art.9, non è un ferro vecchio, ma un argine contro un modello che si fonda sul predominio degli affari, sporchi o puliti che siano: locali, nazionali, europei.

 

In questa linea anche l’intervento di Maria Rosa Vittadini sulle grandi infrastrutture di trasporto – un tema su cui la Rete ha sempre denunciato la subalternità dello Stato al project financing “garantito” del capitalismo nostrano e la collusione di interessi fra politici e industriali per moltiplicare i costi di costruzione, a prescindere dall’efficienza e l’economicità della gestione delle opere. L’intervento ha sottolineato la necessità di un rovesciamento della strategia portata avanti con continuità da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi due decenni: non è il territorio che deve adattarsi alla “grande opera” (l’esempio più eclatante èla Tav in val di Susa), ricevendone eventualmente una qualche compensazione, ma è piuttosto l’alta velocità e le infrastrutture in genere che devono adattarsi alle caratteristiche e alla domanda del territorio, fatti salvi i requisiti tecnologici di efficienza che non sono certamente quelli del “modello francese” (lunghe tratte percorse ad altissima ed inutile velocità, linee dedicate, conflitto con le linee locali) adottato dall’Italia. Particolarmente preoccupante, quindi, è la proposta del viceministro Ciaccia di modificare l’art. 5 della Costituzione per riportare tutte le decisioni sulle opere definite strategiche in mano allo Stato, e quindi eliminare ogni opposizione “locale” rispetto a scelte prese e governate dall’ alto.

 

Centralità del territorio significa, innanzitutto, ha sostenuto Guido Viale, ri-territorializzazione dei processi economici, vale a dire: il territorio (nella sua dimensione statutaria, patrimoniale e locale) deve essere la chiave di volta della riorganizzazione di un’economia che acquisisca progressivamente indipendenza dalle fonti di energia fossile; cha a loro volta implicano grandi impianti, grandi investimenti, grandi capitali e concentrazione finanziaria, un modello che è entrato in una profonda crisi strutturale per l’insostenibilità sociale e ambientale. In questa linea anche gli interventi di Piero Bevilacqua, di Ornella De Zordo e di Alberto Magnaghi, quest’ultimo con precise indicazioni progettuali (dalle vertenze al progetto).

 

Le grandi opere gestite da gruppi oligopolistici, con una logica omologante e spesso con tecnologie importate (si veda anche tutta la problematica delle energie rinnovabili e del loro abuso contro il territorio) non sono l’unica strada per lo “sviluppo”, anzi spesso pagano un incremento nominale del Pil con una riduzione significativa del patrimonio territoriale. Viceversa, molte piccole opere diffuse, collegate fra loro in una strategia di “simultaneità” – come ha proposto Piero Bevilacqua – possono ottenere il risultato di incrementare il valore aggiunto del paese, sia in termini economici (estendendo al base occupazionale a una platea di giovani esclusi) sia quello territoriale, curando e prevenendo, piuttosto che correndo dietro alle catastrofi in una logica di emergenza (anch’essa affrontata con tecnologie dure, impattanti e costose). In particolare l’Appennino toscano, spopolato ma non ancora desertificato, possiede un patrimonio che può essere trasformato in “risorsa”: i boschi che possono essere di nuovo sfruttati con tagli razionali e impianti di biomassa legati alla domanda locale; i prodotti tipici, la cui eccellenza deriva dal fatto di incorporare le “qualità” dei paesaggi tradizionali; lo sviluppo di un turismo alternativo a quello dei campi da golf, dei residence e dei villaggi turistici estranei al territorio in cui sono localizzati e inseriti esclusivamente in circuiti internazionali. E molte altre iniziative che hanno bisogno di finanziamenti pubblici solo nella fase di start up.

 

A questo proposito, è perfettamente conforme allo spirito del convegno quanto scritto dal gruppo urbanistico di Altracittà (“Il manifesto”, 10 gennaio 2012) in contrapposizione alle “grandi opere infrastrutturali” che alterano profondamente i luoghi su cui impattano: «per grande opera di risanamento e di promozione del territorio si intende invece un intervento vasto, multifunzionale e multisettoriale, che si esercita o su strutture ecologiche complesse (fiumi, bacini idrici, catene montuose, ecc.) o su un’area antropica di pregio e/o problematica (aree metropolitane). Aspetti ambientali e socioeconomici sono considerati in un’unica dimensione di riqualificazione integrata: le opere di intervento sono diffuse e mirano, dopo una prima fase di avvio, ad una rinascita autonoma».

 

Una sintesi operativa degli interventi è stata proposta dalla relazione di Alberto Magnaghi, di cui riportiamo alcuni stralci significativi: «conversione ecologica e territorialista comporta attivare nuovi rapporti sociali di produzione, avvicinando le figure di produttore/abitante in sistemi economici a base locale, fondati sul lavoro autonomo, su intraprese a valenza etica, microimpresa, forme cooperative, ecc. In questa prospettivala Toscanapuò proporre straordinari modelli di produzione della ricchezza futura in forme durevoli; producendo innanzi tutto i mezzi di produzione socio-territoriali di questo nuovo ciclo, in cui molte cose devono decrescere (consumo di suolo, grandi opere, grande distribuzione, grandi apparati industriali, grandi dipendenze dalla finanza globale, grandi metropoli e grandi periferie), altre devono crescere (cittadinanza attiva, reti corte fra produzione e consumo, spazi pubblici, sistemi di economie locali, ripopolamento rurale e montano ecc)».

Sviluppando questi principi in forma operativa, Magnaghi propone alcuni percorsi metaforici.

I percorsi del ritorno ai campi sono:

  • tornare a nutrire le città con cinture di agricoltura periurbana (fattorie didattiche, orti, frutteti giardini) e parchi agricoli con cibo sano a km zero); con l’obiettivo fermare i processi di deruralizzazione, riqualificare i margini urbani e avviare il ripopolamento produttivo con forme di “neoruralità” fondate sul modo di produzione contadino;
  • ridurre l’impronta ecologica con la chiusura locale dei cicli dell’acqua, dell’energia, dell’alimentazione); elevare la qualità ambientale (salvaguardia idrogeologica, qualità delle reti ecologiche e del paesaggio);
  • elevare la qualità abitativa delle periferie (standard di verde agricolo “fuori porta fruibile”; riqualificazione dei margini urbani; qui finisce la città, là comincia la campagna;
  • dai piani di miglioramento agricolo aziendali, a piani territoriali multifunzionali (filiere agro-ambientali, turistiche, culturali);
  • restituire un ruolo produttivo ai paesaggi rurali storici: regole sapienti ambientali, idrogeologiche, ecologiche produttive, in grado di dare indicazioni per la riqualificazione della multifunzionalità dell’agricoltura e in particolare per il cambiamento climatico.

 

«Ma lo stesso può dirsi – continua Magnaghi – per la stessa funzione di produzione industriale, che può essere, in un caso estremo, il risultato dell’azione di una grande agglomerazione di capitale su un territorio, che ne influenza lo sviluppo secondo un modello top-down (e dunque avremo un focus sull’impresa di grande dimensione, a cui corrisponde un modello di politica economica basato sull’attrazione di investimenti cospicui dall’esterno, rispetto ai quali il territorio assume il valore di mero contenitore); o il risultato di una interazione fra le forze attive del territorio stesso, che cooperano per il raggiungimento dei medesimi obiettivi economici, ma con un cambio significativo di approccio e di impostazione delle politiche e dei vincoli dell’attività economica, secondo un modello bottom-up che valorizza lo sviluppo e la crescita dei soggetti stessi del territorio e della loro interazione, puntando alla massimizzazione del benessere locale e delle differenti variabili che lo determinano. Dal distretto mono-colturale ai distretti multisettoriali integrati: integrazione fra agricoltura di qualità, artigianato artistico, recupero dei borghi, archeologia globale, parchi culturali: recupero dei fitti reticoli insediativi di alta qualità (città d’arte) non solo residenziale o turistico, ma per attività economiche di alto livello (ricerca, terziario avanzato, artigianato artistico): un territorio-impresa sociale diffusa, in cui la qualità del paesaggio urbano e rurale diviene il motore del valore aggiunto territoriale».

 

Tutte proposte che sono inquadrabili in un ruolo dei comitati che vada oltre le vertenze e assuma ruoli sempre più progettuali (dall’intervento introduttivo di Claudio Greppi):

«Dalla parte del territorio significa che ogni angolo della regione ha le sue specifiche caratteristiche, naturali, storiche, culturali, che vanno salvaguardate come ricchezza collettiva. Ma per poter salvaguardare bisogna conoscere: ed è qui che il ruolo dei comitati è fondamentale. Sappiamo bene che la nostra contestazione si allarga dai temi più ambientali (energia, rifiuti), a quelli più specificamente urbanistici e paesaggistici, e proprio su questo misto di interessi è nata la Rete. A tenere insieme tematiche così diverse, cittadini dalla provenienza più varia, è una comune aspirazione alla più profonda conoscenza del territorio, che sta alla base di qualsiasi ragionamento progettuale. Si può ancora intervenire, e come? (Così si concludeva il nostro dossier del 2008). Intervenire, quattro anni fa, significava essenzialmente lavorare per bloccare uno scempio, una minaccia. Facevamo anche questa osservazione: che la presenza di una Rete di Comitati ha già ottenuto come risultato di mettere in guardia le istituzioni, di costringere i nostri interlocutori a stare molto attenti almeno al rispetto delle procedure, visto che i risultati sono quello che sono. E in molti casi una simile cautela non c’è stata. Forse anche il nuovo corso della politica urbanistica regionale è da attribuire, seppure in minima parte, alle attività di denuncia e di contestazione che molti comitati hanno svolto, e chela Rete ha sostenuto.

Ma oggi questa forma di pressione indiretta non basta più. L’esperienza dei comitati ha la possibilità di crescere se promuove l’acquisizione di una vera e propria cultura del territorio. Un territorio che è molto vario e portatore di qualità diverse, tutte da scoprire. Mi piace segnalare che alcun i comitati si dedicano con impegno, nel proprio tempo libero, all’esplorazione sistematica del proprio territorio. Alla ricerca di quella che Strabone duemila anni fa definiva è arethè tòn tòpon, la virtù dei luoghi. Ed è già questo un progetto non da poco».

In conclusione, le condizioni perché un progetto si possa considerare coerente con la cultura espressa dai comitati possono essere riassunte in alcuni obiettivi principali:

  • La manutenzione: siamo in ogni caso favorevoli ad iniziative che abbiano come obiettivo quello della conservazione del patrimonio ambientale e paesistico, non tanto nella forma del vincolo (ormai desueta), ma in quella di progetto di manutenzione: occasione di investimenti, di occupazione ecc.
  • L’acquisizione di beni comuni: qualsiasi intervento che estenda la fruizione sociale del patrimonio di beni culturali e ambientali può qualificare ulteriormente il progetto della manutenzione.
  • E infine il ri-uso: opere edilizie e infrastrutture nate per determinate funzioni ne possono svolgere altre, senza per questo perdere la propria qualità. La rete dei centri storici, le strutture insediative delle campagne, gli spazi aperti dell’Appennino e della costa toscana sono pieni di queste opportunità.

Il ri-uso delle strutture fisiche, delle relazioni sociali, dei saperi di un territorio. E’ una scelta di parte: dalla parte del territorio.

 

Una postilla “istituzionale”

Nel convegno vi sono stati due interventi “istituzionali”: Il primo di Paolo Baldeschi, responsabile scientifico degli “studi conoscitivi e metodologici per l’implementazione del piano paesaggistico della Regione Toscana”. Baldeschi ha sintetizzato alcune caratteristiche innovative del nuovo piano paesaggistico, come il ruolo statutario della disciplina paesaggistica (non quindi legata a strategie contingenti), il fatto che questa disciplina sia espressa fondamentalmente come “regole di riproduzione” del patrimonio territoriale e comunicata in modo semplice e chiaro mediante “norme figurate”, ciò che permette  una maggiore partecipazione e controllo da parte dei cittadini. Tuttavia il piano sconta una serie di nodi critici che devono essere superati soprattutto a livello politico:

1. la difficoltà, dati i tempi estremamente ristretti, di comunicazione con gli enti locali, comitati e cittadini (sono programmate riunioni organizzative e consultazioni di area);

2. l’ipersettorializzazione dei vari assessorati che, invece, dovrebbero tutti collaborare alla formulazione del piano;

3. la divergenza dei piani di settore, in particolare del piano di sviluppo rurale, rispetto alla filosofia e alle finalità del Piano paesaggistico.

In conclusione: «rimane il fatto che il piano è sostanzialmente impotente (nonostante che sulla carta prevalga su ogni altro tipo di pianificazione – sia territoriale che settoriale) senza una incisiva revisione della legge di governo del territorio. Questa è una parte del problema; l’altra parte riguarda la necessità di formare una cultura del paesaggio, assente o deficitaria nel nostro paese».

In conclusione, una proposta semplice: «una delle attività partecipative che più frequentemente impegnano cittadini e comitati sono le osservazioni agli strumenti urbanistici, formulate collettivamente, approfondite, ben documentate, oltre che del tutto consone e conformi rispetto agli obiettivi di legge e piano regionale. Queste osservazioni da molti Comuni sono sistematicamente rigettate; in molti casi senza neanche la fatica di “controdedurre” perché sarebbe difficile, limitandosi a bocciare le osservazioni come “non pertinenti”. Occorre, quindi, ristabilire la “terzietà” del giudizio rispetto a questa forma effettiva di partecipazione; lasciando ai Comuni la facoltà di decidere su tutti gli aspetti che riguardano i diritti soggettivi dei cittadini, ma riassegnando alla Regione la titolarità di decidere laddove le osservazioni mettano in evidenza le difformità e le violazioni rispetto al piano paesaggistico, tutelando così un legittimo interesse collettivo».

 

Il secondo, e ben più importante intervento da un punto di vista politico, è stato quello del Presidente Enrico Rossi, la cui valutazione può mettere in evidenza luci e ombre. Gli aspetti positivi sono innanzitutto nella stessa presenza a un convegno organizzato dalla Rete, non più vista come “avversario” (come ai tempi della giunta Martini-Conti), bensì come interlocutore, e nella presa d’atto che il “conflitto” è ingrediente essenziale di una democrazia partecipata. Gi aspetti negativi stanno in una sostanziale continuità con la politica della precedente amministrazione, rispetto ad alcune “grandi opere” o rispetto alla strategia dello smaltimento dei rifiuti (puntualmente criticata nell’intervento di De Zordo. Sul pro e il contro di quanto detto Rossi e in generale sulle aperture e chiusure politiche della Regione Toscana, il dibattito è aperto. Ma la Retenon può assolutamente rinunciare al suo ruolo di critica, stimolo, e anche dialogo con le istituzioni per proporsi fughe in avanti gratificanti ideologicamente, ma sterili sul piano pratico.

 

A cura di Paolo Baldeschi e Claudio Greppi

Maggio 2012.