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Sandro Roggio |
Da il Manifesto del 6-1-11 e da Eddyburg
Gli argomenti della Rete dei Comitati sulla necessità di agire dal basso per il buon governo del territorio e sulle difficoltà di incidere, trovano riscontri.
Se dite in Sardegna dei rischi – alludendo al “disastro Italia” di Asor Rosa o, più concretamente, a Terzigno e dintorni – non è detto che vi capiscano.
E’ vero che non siamo messi così, ed è difficile riconoscersi in quella situazione, dove la criminalità ha voce sulla sorte di una terra degradata e avvelenata, che perde senso e valore a vantaggio di criminali. Ci sono segnali di degenerazione pure in Sardegna, però, e per i quali ci sarebbe da allarmarsi molto (anche per qualche infiltrazione malavitosa). Ma il degrado percepito è come la temperatura ad agosto, dipende da una serie di fattori, e soprattutto dall’ottica nella quale ti metti, e anche dal consenso di cui si alimenta il consumo di risorse. Perché ogni spreco ha convenienze grandi e piccole, e il consenso – attenzione – può essere molto esteso com’è in Sardegna.
E’ vero: si tira un sospiro di sollievo spostando lo sguardo sull’isola, sulla sua bassa densità abitativa, un milione e mezzo di abitanti in 24mila Kmq, dove tanto spazio depotenzia l’effetto di quell’aggressione che corrode subdolamente la scorza costiera e squilibra tutto il resto che a quella offensiva è agganciato. Diluizione e dispersione attutiscono l’impatto per cui non arriva il messaggio a tutti coloro che non stanno nella schiera dei beneficiati o che sono semplicemente opinione pubblica distratta. Così è: il grande ponte o la Tav fanno più clamore, uniscono nella lotta più di una lunga sequela di villaggi vacanze in Sardegna o della diffusione di capannoni e villette dappertutto.
Si capisce perché. Per questo temo che il gruppo che si oppone in Sardegna a questa dissipazione di risorse sia troppo poco rispetto alle necessità, e troppo isolato (a ragione Guido Viale: le nuove consapevolezze sono prive di una “voce” e di collegamenti adeguati).
Ecco, la Rete offre una sponda utile perché metterà, spero, il paesaggio sardo a rischio tra le questioni d’interesse nazionale, tassello del mosaico dei beni comuni d’Italia. Potrà così acquisire una evidenza translocale dentro un impegno nazionale per la conservazione di patrimoni regionali concorrenti alla ricchezza del Paese (ecco un versante del federalismo solidale – ispirato alla cooperazione ecologica e generazionale – da esplorare).
E’ possibile che a breve le agenzie di rating che certificano la solidità finanziaria di uno stato, mettano in conto la qualità delle risorse territoriali e del patrimonio culturale? Tutta roba non delocalizzabile, al contrario delle attrezzature per produrre pvc, calze o bulloni. Quella vigna di Brunello o di Malvasia non la sposti di qualche chilometro. Quell’insediamento storico non è riproducibile. Quella linea di costa se la alteri è per sempre. Conterà il tasso di biodiversità, e la biodiversità non si importa: o ce l’hai o non ce l’ hai, non te la puoi dare come il coraggio di don Abbondio.
Ecco, in Sardegna si recrimina sul ritardo dello sviluppo che oggi si potrebbe volgere a vantaggio. Perché l’arretratezza ha il suo lato B, giacché è rimasto non poco da mettere in valore – in sintonia con le moderne tesi dell’economia ambientale. La necessità di terre buone e belle aumenterà, saranno preziose perché scarse più di quanto possiamo immaginare.
E la politica ? Non si interroga, come dovrebbe, sul niente di fatto per impedire questo vuoto di attenzione. La sinistra e il più grande partito della sinistra (fino da quando era Pci) hanno scansato il tema. Qualche tentativo di dichiarare guerra agli sprechi (ricordate il richiamo all’austerità di Berlinguer, frainteso e contraddetto dalla politica-politicante?). Poi decenni di silenzio, non più di qualche generalità liofilizzata nei discorsi di rito. Ci sono eccezioni, ma nel migliore dei casi i dirigenti della sinistra sanno che un impegno su questi temi non ripaga nel tempo breve della politica e hanno delegato un manipolo di benemeriti ambientalisti che non contano nei congressi ma fanno colore. Nei casi peggiori c’è condivisione di scelte pessime, perché occorre “coniugare ambiente e sviluppo”.